GLI ANNI DI PIOMBO A GENOVA






“Nessun colpevole può essere assolto dal tribunale della sua coscienza”.(Giovenale)


di Mauro Franciolini

Genova, capitale delle Brigate Rosse

Città plumbea, protesa tra le montagne e il mare, tra mille vicoli e case arroccate, Genova vive negli anni di piombo un periodo difficilissimo. A Genova, infatti, nasce la prima formazione di lotta armata di sinistra in Italia, quella “Banda XXII ottobre”, legata ai G.A.P. (Gruppi di Azione Partigiana) di Feltrinelli, che agisce tra il 1969 e il 1971 e che rappresenta una sorta di laboratorio per verificare l’impatto della lotta armata tra i movimenti extraparlamentari. Sul finire degli anni Sessanta, negli ambienti extraparlamentari di sinistra era diffusa la convinzione-presunzione che Genova avesse ancora conservato i connotati che l'avevano caratterizzata nel corso del secondo conflitto mondiale. Convinzioni rafforzate dai noti fatti di Piazza de Ferrari che, nel giugno del 1960, avevano causato la caduta del governo Tambroni. Per stessa ammissione degli extraparlamentari rossi, l’obiettivo era quello di introdurre, nella vita politica italiana, il metodo della guerriglia urbana, caratterizzato da esplosioni, incendi e sabotaggi, dandone la maggiore pubblicità possibile nella speranza di ottenere, in tal modo, il progressivo diffondersi di un sostegno popolare alle proprie azioni ed ai propri obiettivi. Negli anni Settanta il capoluogo ligure vive una grave crisi sociale ed economica. Sul versante politico, la vita della città è caratterizzata da agitazioni che vanno dalla ricomparsa di gruppi di estrema destra, al proliferare di formazioni di estrema sinistra. In questo contesto le BR trovano terreno fertile, perfetto anche per mimetizzarsi; e qui consumano una serie di primati, che segnano altrettante svolte fondamentali della storia dell’organizzazione. La prima è il rapimento del giudice Sossi, che costituisce il primo «attacco al cuore dello Stato», la prima volta che le BR escono dalle fabbriche, per colpire direttamente il potere politico; la seconda è il primo omicidio rivendicato, ovvero il primo omicidio politico pianificato nella storia italiana della lotta armata, con la decisione di alzare il livello di fuoco, ricorrendo all’omicidio come strumento di lotta politica, in un’ottica di preparazione alla guerra civile: è l’8 giugno del 1976 e il procuratore generale di Genova, Francesco Coco viene trucidato, con gli agenti della scorta, alle soglie della sua abitazione. La lotta armata sarà un aspetto importante della vita politica della città per tutto il decennio. Tutti sanno come andò a finire e la tragica stagione di violenza che seguì quel folle sogno di rivoluzione è oggi oggetto di studio e di analisi. Tuttavia, per cercare di comprendere meglio i fatti che saranno rievocati, è necessario fare un passo indietro nella storia fino ai drammatici giorni della guerra civile.

Genova, città Medaglia d’oro della Resistenza

A Genova, il movimento partigiano fu monopolio del Partito comunista che, fin dall’inizio, volle imprimere alla lotta un ritmo feroce e spietato. Gli obiettivi strategici dei comunisti furono essenzialmente due: esasperare i fascisti, spingendoli a reazioni sanguinose ed inconsulte, che avrebbero coinvolto molti innocenti seminando l’odio attorno al fascismo repubblicano; costringere gli antifascisti non comunisti ad accettare la lotta sul piano dello scontro armato finendo per assecondare il progetto del P.C.I. A Genova, tra il settembre 1943 ed il marzo del 1944, furono oltre 150 i fascisti repubblicani uccisi dal 1° Gruppo d’azione patriottica, composto da Giacomo Buranello, Walter Fillak, G.B. Torre e Germano Jori: nomi ricordati oggi nella toponomastica del ponente cittadino. Sotto la sigla G.a.p., proposta dal senatore comunista Giovanni Brambilla, si celavano gli elementi di punta della “guerra privata” comunista coordinati da Ilio Barontini (nel 1941 militante dei Francs Tireurs Partisans, un gruppo di terroristi francesi), Giancarlo Pajetta e Aldo Lampredi - tre dei maggiori responsabili dell’apparato militare del P.C.I. - che avevano appreso le tecniche della guerriglia durante la guerra civile di Spagna. Dei 19.000 fascisti caduti tra l’8 settembre 1943 ed il 25 aprile 1945, 12.000 vennero eliminati dai gappisti in azioni individuali, in uno stillicidio di uccisioni spesso compiute in agguati alle spalle e di spietate rappresaglie. La guerra civile a Genova e provincia fu particolarmente feroce: nell’Ossario del cimitero di Staglieno sono stati raccolti i resti di 1.500 caduti della R.S.I., 900 dei quali sono senza nome. Voci, tuttavia incontrollabili, riferiscono che qualcuno fu gettato vivo nei forni dell’Ansaldo. Stime attendibili ci dicono che a Genova, dopo l’aprile 1945, furono assassinate 726 persone: 469 civili (di cui 71 donne) e 257 militari. Secondo alcuni studiosi il numero degli assassinati dopo il 25 aprile ammonterebbe invece ad oltre 800, ma il numero preciso forse non si saprà mai. La sigla G.a.p. riappare in Italia nel 1970 e questa volta significa, senza mezzi termini, Gruppi di azione partigiana. Il loro fondatore è il “miliardario rosso” Giangiacomo Feltrinelli che organizza una rete di cellule terroriste a Genova, Milano, Torino, Trento, Teramo, Verona e La Spezia. Le loro azioni, insieme a quelle dei G.a.p. “storici”, ispireranno a scatenare il terrorismo micidiale delle Brigate rosse che, a Genova, tra il 1976 ed il 1980, provocherà 9 morti e 16 feriti.

La morte di Ugo Venturini

Il 18 aprile 1970, in piazza Verdi, il comizio del M.S.I. viene attaccato da circa duecento estremisti di sinistra. Gli aggressori hanno tutti il volto coperto e i poliziotti non hanno né le telecamere, né le macchine fotografiche per poterli riprendere e successivamente identificare. La situazione precipita. Dalle file dei rossi arriva di tutto: bastoni, sassi, mattoni, calcinacci e bottiglie. Una bottiglietta di vetro, piena di terra, colpisce alla testa il dirigente dei Volontari Nazionali di Genova Ugo Venturini, 33 anni, che si trova ai piedi del palco, alle spalle di Giorgio Almirante per proteggerlo. Le condizioni di Venturini si aggravano fino al punto che, dopo qualche giorno, risulta necessario il suo trasferimento presso il Reparto di rianimazione. La morte, per infezione tetanica, sopraggiunge dopo tredici giorni di agonia: è il 1° maggio, giorno della Festa dei lavoratori. Da quel giorno, la campagna dell’odio e della persecuzione scatenata da tutte le forze del regime, sotto la regia del Partito comunista, scatenerà una guerra civile strisciante e la morte di altri diciannove militanti della destra politica.

L’omicidio di Alessandro Floris e il sequestro di Mario Sossi

Il 26 marzo del ‘71, alle 10.30 del mattino in via Bernardo Castello due uomini armati aggrediscono il portavalori dell’Istituto Autonomo della Case Popolari (IACP), Alessandro Floris: gli strappano di mano la borsa con stipendi e scappano. Floris li insegue, i rapinatori salgono su una lambretta che però non parte, il giovane portavalori è sempre più vicino e allora uno dei due, Mario Rossi, gli spara ferendolo a morte. Dalla finestra un giovane studente di fotografia però ha visto e fotografato tutto: una foto ritrae i due rapinatori sulla lambretta mentre Floris, a terra, è in fin di vita. Nel corso della fuga sulla Lambretta, i due terroristi vengono raggiunti da alcuni cittadini, poi si dividono e uno viene fermato poco dopo da due brigadieri. Mentre l’altro verrà individuato dagli inquirenti grazie alla foto e verrà arrestato a Milano nel 1972, in un appartamento dei G.A.P. Durante le indagini spuntano delle banconote particolari facenti parte del riscatto per la liberazione di Sergio Gadolla: si capisce quindi che non si trattava di una semplice rapina finita male ma di qualcosa di più complesso. Nel giro di pochi mesi vengono quindi arrestate 15 persone (tra cui Giuseppe Battaglia, Renato Rinaldi, Rinaldo Fiorani e Mario Rossi), tutte facenti parte della “Banda XXII ottobre”, organizzazione terroristica nata nel ’69. Il PM del processo contro la “XXII ottobre” è Mario Sossi, un uomo che ha la fama di essere un duro. La sera del 18 aprile del ’74 un commando della banda lo aspetta sotto casa e lo sequestra dicendogli: “Cercavi le BR? Ora le hai trovate”. Dopo 36 giorni di prigionia in una cosiddetta prigione del popolo, le BR comunicano alla polizia di aver lasciato un comunicato nella cassetta delle poste di via Tommaso Invrea: in cambio della liberazione del magistrato chiedono il rilascio dei membri della banda. “Sossi per Rossi” titolano i giornali. La Corte d’Assise d’Appello ordina così la liberazione dei brigatisti, ma il Procuratore generale di Genova, Francesco Coco, si oppone alla sentenza della Corte. Nonostante questo Sossi viene liberato il 23 maggio del ‘74. Sembrerebbe che la giustizia abbia vinto, ma purtroppo l’atto di coraggio di Coco non rimarrà privo di conseguenze. In una recente intervista Sossi ha affermato: “Sono ancora vivo, ed è un miracolo. Dalla mezzanotte del 5 luglio 2006, sono fuori dai ranghi della magistratura. Ora, da pensionato, posso parlare liberamente. Avrei potuto rimandare ancora la pensione, ma ho visto deviazioni tali che mi hanno indotto a non restare un giorno in più. Ho lasciato in anticipo di sette mesi; vedere ex terroristi addirittura in Parlamento, per me è inaccettabile! E’ uno schiaffo al dolore delle vittime”.

La colonna genovese delle Brigate Rosse

La colonna genovese vera e propria nasce nel 1975 e la sua storia si snoda lungo il quinquennio successivo, fino alla sconfitta militare del 1980. Nel corso dei cinque anni di attività, le BR genovesi porteranno a termine nove omicidi, sedici ferimenti, un’aggressione (22/10/75: Vincenzo Casabona, capo del personale dell’Ansaldo meccanico, sequestrato ad Arenzano, picchiato, fotografato e rilasciato in serata a Recco), due assalti militari (14/1/76: attaccate due caserme dei carabinieri) e altre imprese di minore gravità (8/10/75: rapina allo sportello della Ca.ri.ge. all’interno dell’Ospedale San Martino; 11/4/78: rapina alla Banca Popolare di Novara). Già da queste cifre è possibile dedurre l’implacabile efficienza militare di questa colonna. La gran parte dei militanti della colonna genovese, sono cresciuti dentro i servizi d’ordine dei gruppi dell’estrema sinistra, sono abituati a considerare la violenza come pratica politica. Nella prima fase la colonna è formata da pochi militanti regolari che si raccolgono intorno a Rocco Micaletto, braccio destro di Mario Moretti, convenuto con lui a Genova, con l’incarico di assumere il comando della nascente organizzazione. I primi militanti sono: Fulvia Miglietta, Riccardo Dura (detto “Pol Pot” all’interno dell’organizzazione), Livio Baistrocchi e Francesco Lo Bianco. Secondo i suoi fondatori e dirigenti, anche nel capoluogo ligure le Brigate rosse dovevano "indicare il cammino per il raggiungimento del potere e l'instaurazione della Dittatura del Proletariato e la costruzione del comunismo anche in Italia", che doveva realizzarsi attraverso azioni politico-militari e documenti di analisi politica dette "risoluzioni strategiche", che indicavano gli obiettivi primari e come raggiungerli. Le prime azioni sono dimostrative. Volantinaggi e piccoli attentati incendiari contro le automobili di capi reparto particolarmente zelanti durante i durissimi conflitti sociali che percorrevano la penisola. La colonna genovese opera in un contesto particolare, che potremmo definire il polo debole del triangolo industriale. Agli albori della loro storia, le BR genovesi sono un gruppuscolo rivoluzionario come tanti, ma dal 1977 le dimensioni della colonna si ingrossano tanto che viene creata una Direzione di colonna e di un Capo colonna. Contemporaneamente cresce il numero dei fiancheggiatori e dei simpatizzanti dell’organizzazione, soprattutto sotto il profilo logistico. A questo punto, l’organizzazione genovese entra nella sua piena maturità e assume una fisionomia simile a quella degli altri organismi di questo tipo. Intanto Micaletto si trasferisce a Torino a dirigere la colonna locale. Un’altra peculiarità della colonna genovese, oltre all’efficienza militare, è sicuramente la centralità attribuita alla questione operaia. Su sedici ferimenti consumati a Genova, sette sono rivolti contro dirigenti industriali, a cui si aggiungono altri due rivolti, uno contro un dirigente dell’Italsider e l’altro contro uno studioso dell’industria e del lavoro. Inoltre, vengono compiute numerose azioni minori, come gli incendi d’auto di dirigenti, un assalto militare contro la sede dell’Intersind (l’associazione delle aziende dello stato per le vertenze sindacali) e l’omicidio di un operaio sindacalista, Guido Rossa. Le Brigate Rosse sono attive soprattutto nell’ambito delle due maggiori fabbriche della città: l’Italsider e l’Ansaldo. E’ qui, inoltre, che si svolgono più sovente le azioni di volantinaggio, le inchieste e gli attentati ai dirigenti. Un altro importante aspetto della questione operaia è quello del rapporto tra Brigate Rosse e operai. Le Brigate Rosse godevano, all’inizio della loro attività, di numerose simpatie e talvolta anche di consensi nel mondo operaio; simpatie e consensi che, però, hanno iniziato presto a diminuire, man mano che l’attività delle Brigate Rosse diventava più efferata e gratuita e le loro analisi sempre più allucinate e sganciate dalla realtà. Dalla seconda parte del 1977, Riccardo Dura diventa il capo colonna: rimane in carica fino alla morte, avvenuta il 28 marzo 1980, in seguito all’operazione dei carabinieri di via Fracchia. La gestione Dura è la più sanguinaria. L’ambizione brigatista di riscuotere il consenso degli operai genovesi viene definitivamente e tragicamente stroncata il 24 gennaio del 1979 con l’omicidio del sindacalista Guido Rossa. L’omicidio di Rossa è un capitolo della storia del tentativo delle BR di penetrare nelle fabbriche; una storia tragica che si conclude con la morte violenta proprio di due operai: Guido Rossa e Francesco Berardi (il postino delle BR denunciato da Rossa, suicidatosi nel supercarcere di Cuneo il 24/10/79). A Riccardo Dura gli succede Francesco Lo Bianco, poi sostituito da Barbara Balzerani che sarà l’ultimo capo della colonna genovese. La colonna genovese si distingue, dunque, per la notevole capacità e aggressività, per l’efficienza organizzativa e per l’imprendibilità, sul versante militare e per la centralità accordata alla questione operaia, su quello politico. Dopo il blitz dei carabinieri nel covo di via Fracchia, si formano le cosiddette brigate di “irregolari” guidati da un regolare. Sono tre: Brigata San Martino (ospedale), Brigata Porto e Brigata Italsider. A partire dal 1980 la colonna genovese si sfalda in seguito alle rivelazioni di vari pentiti che innescano l’attacco dei reparti speciali dei carabinieri del generale Dalla Chiesa e della polizia. Genova ha rivestito un ruolo assai importante nella storia della lotta armata degli anni Settanta al punto che si è parlato di Genova come “capitale” o “laboratorio”delle Brigate Rosse.

Composizione della Direzione di colonna a Genova attraverso gli anni

MEMBRI DELLA DIREZIONE PERIODO

Micaletto, Miglietta, Dura (Baistrocchi) Gennaio – fine Giugno 1977

Micaletto, Miglietta, Dura, Nicolotti, (Baistrocchi) Luglio – Ottobre 1977 (circa)

Micaletto, Miglietta, Dura, Nicolotti, Baistrocchi, Guagliardo Dicembre 1977 – Maggio 1978

Miglietta, Dura, Nicolotti, Baistrocchi, Guagliardo Dicembre 1978 – Marzo 1979

Miglietta, Dura, Baistrocchi, Panciarelli Aprile 1979 – Giugno 1979

Miglietta, Dura, Baistrocchi, Panciarelli, Lo Bianco Luglio 1979 – 28 Marzo 1980

Baistrocchi, Lo Bianco, Carpi Aprile 1980 – Agosto 1980

Lo Bianco, Balzerani Luglio 1980 – Aprile 1982

I capi colonna

CAPOCOLONNA NOME DI BATTAGLIA PERIODO

Rocco Micaletto Lucio dal Gennaio 1975 all’Aprile 1978 (circa)

Riccardo Dura Roberto dall’Aprile 1978 al 28 Marzo 1980

Francesco Lo Bianco Giuseppe dall’Aprile al Luglio 1980

Barbara Balzarani Sara dal Luglio 1980 all’Ottobre 1981 (circa)

Il primo omicidio rivendicato delle BR L’8 giugno del 1976 il Procuratore generale Francesco Coco mentre sta tornando a casa sulla sua auto di servizio con il caposcorta Giovanni Saponara viene crivellato di colpi alle spalle e alla testa. A perdere la vita oltre ai due c’è anche l’appuntato dei carabinieri, Antioco Deiana. Il giorno seguente a Torino, dove da 23 giorni è in corso il processo ai capi storici delle BR, un brigatista, Prospero Gallinari, chiede di leggere un comunicato in cui le BR rivendicano l’uccisione del procuratore e dei suoi uomini. “Non erano figli del popolo – si legge - ma sgherri al servizio della contro-rivoluzione”. È la prima volta che le BR hanno ucciso volontariamente, ed è la prima volta che a perdere la vita è un magistrato. Massimo Coco, figlio di Francesco: “Qualche volta mi sembra che questo essere vittime del terrorismo, questa sorta di neonata categoria, di cui malvolentieri e senza mia scelta faccio parte, generi quasi fastidio. Sembra quasi che si abbia timore delle nostre richieste, o forse del nostro dolore. Sarebbe più facile per tutti far scendere una cappa di oblio, dimenticare, andare avanti. Noi, invece, ricordiamo sempre tutto. Questa è la nostra pena e la loro dannazione”.

Il rapimento di Piero Costa

Il 12 gennaio del 1977 un commando delle BR rapisce l’armatore Piero Costa. Dopo 81 giorni di prigionia, la famiglia decide di pagare il riscatto: le BR entrano in possesso di 1 miliardo e mezzo di lire, cifra che garantirà loro la sopravvivenza per diversi anni. Il pagamento avviene a Roma, mentre la liberazione a uno svincolo dell’autostrada di Genova. La polizia non riesce a individuare i responsabili del rapimento, e solo dopo il rilascio si viene a sapere che l’operazione era opera di membri delle BR. Dall’inizio di giugno ‘77 al luglio ‘78 vengono colpite diverse persone: 1/6/77: Vittorio Bruno, vicedirettore de “Il Secolo XIX” (si tratta del primo giornalista “gambizzato”); 27/6/77: Sergio Prandi, dirigente Ansaldo; 10/7/77: Angelo Sibilla, segretario regionale della DC; 17/11/77: Carlo Castellano ovvero il direttore della pianificazione dell’Ansaldo: è il primo membro del PCI ad essere colpito dalle BR e oggi afferma: “Le persone a cui sparavano non erano persone umane ma simboli, icone. Dietro noi non c’era una storia per loro, ma solo un simbolo da colpire”; 18/1/78: Filippo Peschiera, docente di diritto del lavoro; 6/4/78: Felice Schiavetti, presidente Associazione industriali di Genova; 4/5/78: Alfredo Lamberti, funzionario Italsider; e, infine, il 7/7/78: Fausto Gasparino, vicedirettore Intersind.

La morte di Antonio Esposito

Tra gli obiettivi principali delle BR naturalmente ci sono le forze dell’ordine. Quando nel febbraio del ’78 vengono chiusi i nuclei antiterrorismo, il commissario Antonio Esposito viene trasferito al commissariato di Nervi. Lui e sua moglie Anna Maria Musso, una tiratrice scelta della polizia di Genova, pensano che si tratti di un impiego più tranquillo, ma si sbagliano. Il 21 giugno del ‘78 infatti entrambi escono di casa per recarsi al lavoro, quando un commando spara contro Esposito. La moglie racconta: “Ricordo che mi disse: oggi finisce il processo di Torino, può essere che le BR lo vogliano festeggiare a modo loro. Io non pensavo che lui parlasse di se stesso e ancora oggi mi rimprovero di non avergli chiesto nulla, se per caso avesse paura. L’ho lasciato a Corso Buenos Aires, alla fermata del 15 verso Nervi e lì c’erano i suoi assassini che lo aspettavano. In seguito mi dissero che a me non mi avevano ammazzato perché pensavano che l’opinione pubblica sarebbe stata contraria, perché così avrebbero reso due bambini orfani e questa non era una buona pubblicità per la loro causa”. Eppure la città di Genova sembra non essere troppo indignata della violenza che in quegli anni stava vivendo. Alcuni magistrati si sentono addirittura dire che in fondo se qualcuno era stato ammazzato era perché evidentemente qualcosa aveva fatto. Ma con l’assassinio di Guido Rossa però tutto cambia. Le BR superano qualunque limite.

L’assassinio di Guido Rossa

Guido Rossa è un delegato sindacale dell’Italsider, la fabbrica di acciaio della città. Una città nella città. Qui il 24 ottobre del ‘78 un altro operaio, militante delle BR, Francesco Berardi, viene sorpreso a distribuire volantini con la stella a cinque punte. Poiché il consiglio di fabbrica in quei mesi aveva dato l’ordine di consegnare alla vigilanza interna qualsiasi materiale propagandistico fosse stato pervenuto, Guido Rossa è l’unico ad avere il coraggio di raccontare l’accaduto. Testimonia quindi al processo nel quale vengono dati quattro anni di reclusione a Berardi (che in seguito di suiciderà). Il 24 gennaio del ’79 un commando delle BR composto da Riccardo Dura, Vincenzo Guagliardo e Lorenzo Carpi decide di fare vendetta. Non è ancora l’alba e Guido Rossa esce di casa, entra in macchina e qui viene colpito al cuore da un proiettile. Le BR hanno ucciso un operaio, un operaio comunista. Il giorno dopo per le strade della città sfilano 250mila persone per dire finalmente “basta”! Eppure il giornale di Lotta Continua titola: “Ora che un delatore è morto”...Nel 2008 la figlia Sabina, deputata eletta nel Partito Democratico, si è espressa contro la decisione dei giudici di sorveglianza di Roma di negare la libertà condizionale a Vincenzo Guagliardo, dopo averlo incontrato.

Le BR feriscono e uccidono ancora

Tra il 24 aprile e il 31 maggio del ‘79 la colonna genovese ferisce ancora. 24/4/79: Giancarlo Dagnino segretario amministrativo della DC; 30/4/79: Giuseppe Bonzani, direttore dell’Ansaldo; 29/5/79: Enrico Ghio, consigliere comunale della DC; 31/5/79: Fausto Cuocolo, docente universitario. Il 21 novembre del ‘79 il maresciallo Vittorio Battaglini e il carabiniere scelto Mario Tosa, da tempo nel mirino delle BR, vengono uccisi mentre prendono il caffè in un bar di Sampierdarena. Entrambi muoiono sul colpo. Due mesi dopo, il 25 gennaio ’80 a cadere sono altri due carabinieri. In via Riboli, una stradina molto stretta del quartiere di Albaro, alcuni brigatisti aspettano l’auto che trasporta il tenente colonnello dell’esercito Luigi Ramundo, il colonnello dei carabinieri Emanuele Tuttobene e il suo autista l’appuntato Antonino Casu e iniziano a sparare una raffica di colpi. Dall’attentato si salverà solamente Ramundo. Il 29 febbraio di quello stesso anno è la volta di Roberto Della Rocca, il capo del personale della Motomeccanica Generale Navale, mentre il 24 marzo di Giancarlo Moretti, consigliere comunale DC e docente di diritto tributario. Entrambi vengono feriti, ma fortunatamente le loro condizioni non sono gravi e si salvano. Ricordando quei drammatici giorni, Fausto Cuocolo disse: “Subito dopo la gambizzazione, lo stress post-traumatico – che purtroppo non viene mai adeguatamente valutato – è stato altissimo. Ho avuto moltissime difficoltà nel vivere blindato e sotto scorta, con limitate possibilità di movimento. E, quel che rimpiango maggiormente, è il tempo trascorso senza i figli, senza poterli portare a giocare fuori o a fare una passeggiata. Questo per me è stato il danno esistenziale più grave. Ho trascorso più tempo in questa situazione di prigioniero in casa mia io, che i miei attentatori (in galera)”.

La strage di via Fracchia

In quei giorni a Torino il brigatista Patrizio Peci, arrestato il 19 febbraio, decide di parlare: è il primo pentito delle BR. Grazie alle sue informazioni, il 28 marzo 1980 in via Umberto Fracchia, a cento metri da dove era stato ucciso Guido Rossa, gli uomini di Carlo Alberto Dalla Chiesa entrano al civico 12/1 e intimano la resa. I brigatisti però sparano al maresciallo Rinaldo Benà che perde un occhio. I carabinieri rispondono al fuoco e quattro brigatisti perdono la vita: Riccardo Dura (Roberto), Piero Panciarelli (Pasquale), Lorenzo Betassa (Antonio) e Anna Maria Ludmann (Cecilia). È una strage e di fatto la colonna brigatista genovese delle BR non esiste più. Il covo è pieno di armi. Una stanza è perfino adibita all'esclusiva fabbricazione di targhe false, e inoltre vengono trovate 3.000 schede su tutti gli uomini “gambizzati”, uccisi e i possibili obiettivi. Per i magistrati diventa chiaro che la rete delle BR è piuttosto capillare, che i brigatisti possono vantare notevoli appoggi. E che per fortuna, però, il “gioco” aveva perso pedine importanti. Fondamentali. Il 18 giugno 1981 Carlo Cattaneo, capo dell’ufficio sindacale dell’Italsider di Campi, esce indenne da un attentato delle BR: da quel giorno Genova, nonostante le sue ferite, ritrova un po’ di pace.

Dati riassuntivi sulle vittime in Italia tra il 1969 e il 1981.

VITTIME INDIVIDUALI DEL TERRORISMO: 176

VITTIME DI STRAGI TERRORISTICHE: 135

VITTIME DI ATTENTATI DI TERRORISMO INTERNAZIONALE: 58

VITTIME DI VIOLENZA POLITICA: 41

TOTALE: 410 MORTI

Ai quali vanno aggiunti le decime di vittime di forze dell’ordine in azioni di antiterrorismo e migliaia di feriti negli oltre 7.000 attentati compiuti.




vuoi inviare questo articolo a un amico? clicca qui sotto