LA SPERANZA DISPERANTE DEL LAICISMO

Il balletto laicista intorno

al surrogato dell’immortalità


Figure dell’albagia laicista


di Piero Vassallo


San Tommaso d’Aquino sosteneva che un segno della sua natura indistruttibile l’anima lo ha nell’orrore che prova l’uomo davanti alla morte e nella brama di vivere sempre (Summa theol., Ia, q. 75, aa. 2 e 6).

Antonio Rosmini, in questo fedele alla lezione dell’Aquinate, sosteneva che le persone oneste amano l’essere con tutto il loro cuore e perciò hanno orrore del nulla.

Questa verità è confermata dalla testimonianza dei mistici, i quali descrivono, senza falsi pudori, l’angoscia che invade la loro anima quando, insieme con il pensiero della morte fisica, si affaccia lo spettrale, satanico incubo dell’immenso ed eterno nulla.

Santa Teresa di Gesù Bambino, ad esempio, ha descritto la visione desolante, che l’affliggeva e quasi l’ossessionava quando, nel giardino del Carmelo di Lisieux, gravemente malata, attendeva la morte: “Ecco, guardi, vede laggiù, confidava alla consorella che l’assisteva, accanto ai castagni, quel punto nero ove non si distingue nulla … E’ in una buca come quella, che mi trovo io, anima e corpo. Ah sì, quali tenebre! … È l’agonia pura, senza traccia di consolazione” (Cfr.: Santa Teresa di Gesù Bambino, “Gli scritti”, Postulazione generale dei Carmelitani scalzi, Roma 1970, pag. 368 e 375).

Intorno alla tormentosa, satanica allucinazione che tentava Santa Teresa di Lisieux, Max Horckheimer, maestro francofortese del sospetto, ha provato a ricamare un insinuante elzeviro d’intonazione crepuscolare. Il suo scopo, forse, era dimostrare l’inclinazione del Cristianesimo al moderno, ossia gettare l’ombra della malinconia sopra la fede nel Redentore.

Nell’intento di oltrepassare il pensiero di Horckheimer, l’avanguardista Eugenio Scalfari ha alzato il grido della sfida eroica e vanagloriosa, con cui presume di umiliare la pavida fede dei cristiani: “Io, non credente gioco con la morte” (Cfr. la pagina culturale di “Repubblica” del 17 ottobre 2006).

I fedeli cristiani gemono al cospetto della morte e sono terrorizzati dalla suggestione del nulla; l’impassibile giornalista ateo ride e gongola spavaldamente. Gioca con la morte e così crede di dimostrare la superiorità dell’ateismo militante nel partito del vuoto.

La santità della piccola carmelitana di Lisieux sembra insignificante al cospetto del lume impavido e smargiasso della miscredenza.

Spumeggiante interprete dell’ultracogitare, il ridente Eugenio Scalfari afferma la superiorità morale dell’ateismo ed espone il programma della filosofia postmoderna: gettare un ponte acrobatico tra l’incubo del nulla e il desiderio di sopravvivere: “Dalla certezza che il senso è quella vita che si dissolverà si genera la tensione alla sopravvivenza …”.

Strumento della vita, il nulla incita all’azione “Per me il senso sta quando si agisce, è l’azione. Si agisce per realizzare un obiettivo. Senza questo non rimane che il suicidio”.

Ora il senso che il guru repubblicano attribuisce alla vita umana è la parziale sconfitta della morte, ovvero “Segnare la diversità della nostra vita, farla diventare degna di essere ricordata”.

Il traguardo della vita è il monumento funebre o la lapide. Il marmo perpetuo e palliativo.

Posto che Scalfari contempla la morte come “un momento dopo il quale non ce ne sarà un altro”, è lecito domandare quale beneficio potrebbe ottenere la vita umana dalla lode scolpita nel laico ma freddo marmo, quando fosse sepolta nella profondità del sonno eterno, abisso orrido e immenso come lo definisce Leopardi?

Quale conforto recherà a coloro che sono già precipitati nell’abisso silenzioso del nulla l’esser ricordati dai lettori delle lapide, viventi provvisori e affannati?

Il dubbio sulla consolazione che i morti potrebbero ottenere dalla bella lapide circolava prima della diffusione del Cristianesimo.

Cicerone, ad esempio, si chiedeva quale fosse il valore della gloria umana quando l’uomo “non è in grado di conseguire una gloria non dico eterna ma neppure duratura” (“… Non aeternam, sed ne diuturnam gloriam adsequi possumus”. Cfr.: “Somnium Scipionis” VII, 23, edizione a cura di Andrea Barbino, Garzanti, Milano 2008, pag. 14)

D’altra parte Epicuro aveva ammesso che, quando si immagina la caduta dell’uomo nel niente, occorre riconoscere che niente può confortare o disturbare il defunto.

La sapienza dei classici, pertanto, cercava il rimedio alla morte di là del mondo.

La vana guerra condotta contro il nulla dal laicista Scalfari apre le porte del ridicolo, per fare entrare in scena la vanagloria, vanitas vanitatum et omnia vanitas, l’umiliante placebo prescritto dalla passione inutile, che si aggira intorno alla deprimente certezza del nulla.

Sennonché proprio l’orrore del nulla eterno è un segno che manifesta la naturale disposizione dell’uomo all’immortalità.

Il preambolo della filosofia classica è l’insopprimibile amore per la vita proclamato da Omero nei versi dell’Odissea, nei quali la discesa di Ulisse agli inferi e l’incontro con l’ombra di Achille sono rievocati con accenti strazianti, che quasi anticipano l’invocazione paolina, “chi mi libererà da questo corpo di morte”.

La redenzione cristiana è la risposta a quel grido. Santa Teresa di Lisieux confessava, infatti, di sentirsi in pace nel tormento della prova poiché, nella sua anima, il fuoco della carità aveva rianimato la fede afflitta e oscurata dalla tentazione satanica (Cfr.: Santa Teresa di Gesù Bambino, “Gli scritti”, op. cit., pag. 368).

La misericordia di Dio, peraltro, non esclude il contributo della ragione alla lotta cristiana contro il dubbio destato dalla vertigine del nulla, che attira irresistibilmente la fragilità umana.

San Tommaso d’Aquino, dopo aver dimostrato l’impossibilità che l’anima sia soggetta alla dissoluzione cui è, invece, destinato il corpo, osserva che la verità sull’anima ha fondamento nell’universale aspirazione alla vita eterna: “Naturale autem desiderium non potest esse inane” (Summa theol., Prima pars, q. 75. a. 6, respondeo).

La ragionevole, pacifica, inconcussa fiducia nella bontà del desiderio suscitato dalla natura è un riverbero della fede in Dio.

L’immagine di una natura perversa, finalizzata all’inganno e al tradimento nasce, invece, nell’occhio torbido e disperato del pregiudizio ateo.

La negazione dell’immortalità dell’anima costringe a ricorrere alla contemplazione di un creatore malvagio.

Il confine che separa il pensiero cristiano dalla passione atea è segnato dall’opposto giudizio sui desideri secondo natura: la dottrina cristiana insegna che la natura non può ingannare, mentre il pensiero ateo concepisce – sospetta - una natura intrinsecamente malvagia, concepita da una divinità tenebrosa, che illude e mortifica l’umanità.

Non a caso, l’ex progressista Scalfari, declinando il nome dei suoi maestri, Leopardi, Schopenhauer e Nietzsche, annuncia lo sbarco del laicismo sul gelido continente del sospetto gnostico e della contraffatta religione buddista.

Buddismo, gnosticismo e nichilismo postmoderno hanno per denominatore comune un assioma, che afferma il carattere illusorio e perverso del creato.

Nella “Lettera a Rheginos”, trattato gnostico scoperto a Nag Hammadi nel 1945, è formulata, infatti, una sentenza che afferma l’illusorietà del mondo, stabilendo la parentela ideale di gnosticismo, buddismo e nichilismo sessantottino (Cfr.: Elaine Pagels, “I Vangeli gnostici”, op. cit. pag, 55).

I frammenti dell’incompiuto poema, che Giacomo Leopardi intendeva dedicare al dio negativo, Arimane il tenebroso ingannatore, rappresentano, dunque, l’atto finale della tragedia intitolata al progressismo ateo.

Poiché il conflitto che oppone l’anima immortale al corpo di morte è la conseguenza del peccato originale, la ringhiosa negazione della verità cattolica nasconde ultimamente l’insensata volontà di sfuggire alla possibile pace che vince le tenebre.

Il successo che arride ai maestri del sospetto fa intendere che Chesterton aveva ragione quando sosteneva che la gaia scienza in realtà è una tetra scienza, ovvero la maschera di una ruggente tanatofilia.

Spenti i lumi illuministici, dimenticate le profezie sul paradiso in terra, licenziate la magnifiche sorti e progressive, la ragion atea si aggira tra incubi disperati e consolazioni monumentali.

Le certezze esibite dall’orgoglio illuministico adesso sono appiattite sulle parole evanescenti scritte su una lapide.


Piero Vassallo è nato a Genova nel 1933. Laureato in filosofia è stato docente nella sede genovese della Facoltà teologica del Nord Italia. Giovanissimo ha iniziato l’attività di pubblicista sotto la guida di Giano Accame, è entrato nella redazione della rivista Lo Stato diretta da Baget Bozzo. Di seguito ha collaborato con Guido Gonnella (Il Centro), con Nino Radano (Il Quotidiano), con Antonio Livi (Studi Cattolici), Silvano Vitale (L’Alfiere) e nuovamente con Baget Bozzo (Renovatio). Negli anni Settanta ha fatto parte dell’associazione dei giusnaturalisti cattolici (fondata da Francisco Elias de Tejada) ed ha collaborato con la Fondazione Gioacchino Volpe. Tra il 1997 ed il 2003 è stato editorialista del quotidiano romano Il Tempo. Fra le sue opere “Pietro Mignosi e la Tradizione” (Palermo 1989), “Introduzione allo studio di Vico” (Palermo 1992), “La filosofia del regresso” (Napoli 1996), “La restaurazione della metafisica” (Genova 2006),“La cultura della libertà” (Genova 2007) e “Memoria e Progresso” (Verona 2009)









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