19 novembre 1969: assassinio di un poliziotto


QUARANT’ANNI FA IL “SESSANTOTTO”COMPLETAVA LA SUA PARABOLA: UCCIDENDO UN POLIZIOTTO

di Paolo Deotto

Tra pochi giorni, il 19 novembre, ricorreranno i quarant’anni dall’assassinio dell’agente di Polizia (o Guardia di Pubblica Sicurezza, come si chiamavano allora) Antonio Annarumma, di anni ventidue, autista della Celere.

19 novembre 1969. a Milano, in via Larga. Era bastato poco più di un anno per abituarsi a una specie di follia istituzionalizzata. Milano, insieme a Roma, era la città che di più pativa per continue manifestazioni, blocchi del traffico, università in mano a picchiatori professionali, insicurezza, disordine. E ad aggiungere disastro a disastro avevano dato il loro contributo i sindacati della Trimurti, CGIL-CISL-UIL, che avevano impostato la loro azione su toni decisamente barricadieri, con pretese che andavano ben al di là della competenza del sindacato, in ciò incoraggiati dal primo anno di “rivolta studentesca”, durante il quale era sembrato che tutto fosse possibile, che non esistessero più regole valide per tutti, ma solo la legge del più forte.

Al centro di tutto questo pasticcio stavano i governi democristiani dell’epoca, composti di personaggi ormai imbolsiti dall’esercizio del potere, incapaci di affrontare con decisione una situazione che imponeva scelte coraggiose. I nomi di Mariano Rumor, Franco Restivo, Fiorentino Sullo, Aldo Moro, Paolo Emilio Taviani (per non dirne che alcuni) probabilmente suonano ormai del tutto sconosciuti per molti lettori di oggi. Questi uomini, questi governanti, erano all’eterna ricerca di mediazioni, peraltro impossibili con chi dichiaratamente voleva abbattere la società “borghese e capitalistica”. Erano anche, diciamocelo con chiarezza, uomini di poco coraggio. Era passato il tempo in cui personaggi come Mario Scelba (discusso e discutibile, ma senza dubbio deciso e coraggioso) avevano saputo affrontare il problema dell’ordine pubblico con quelle scelte doverose per un governante che abbia senso di responsabilità. Ormai avevamo uomini che vivevano per il potere che esercitavano, convinti forse di poterlo esercitare all’infinito. Ma una visione più chiara della realtà avrebbe imposto prima la neutralizzazione degli elementi pericolosi, di quanti semplicemente miravano allo sfascio rivoluzionario, per poi affrontare un dialogo possibile con chi voleva rinnovare seriamente la Società. Esattamente ciò che seppe fare in Francia il Generale De Gaulle.

La sostanziale impunità con cui agitatori di professione avevano potuto mettere a soqquadro il mondo della scuola, aveva spinto i sindacati ad adottare lo stesso sistema: prevaricazione, imposizione della legge del più violento. E i sindacati ormai si sentivano investiti di poteri totali, per cui da qualsiasi argomento di chiara competenza politica potevano nascere manifestazioni e pretese di imporre comportamenti al governo. E la CISL e la UIL si erano appiattite sulle posizioni della CGIL, in quel clima per cui “essere a sinistra” era ormai un dogma, e la sinistra non poteva che essere rappresentata dal PCI, di cui la CGIL non era che il sicario nel mondo del lavoro.

Quel 19 novembre 1969 la trimurti CGIL-CISL-UIL aveva organizzato al Teatro Lirico di Milano, in via Larga, una manifestazione per la politica sulla casa. Già il luogo scelto era da incoscienti, perché l’università Statale, sita in via Festa del Perdono, quindi a due passi dal Teatro Lirico era, tanto per cambiare, occupata, ossia in mano a gruppi di facinorosi sempre pronti a menare le mani, e le spranghe. Nel contempo in piazza Duomo si erano radunati gruppetti vari di estremisti rossi, qualche centinaio di persone, decisi a “marciare” sul Teatro Lirico per portare la solidarietà studentesca ai lavoratori. In mezzo a tutto ciò stavano Polizia e Carabinieri, che presidiavano la zona, come sempre mandati allo sbaraglio da un governo che si preoccupava di non apparire troppo “repressivo” e permetteva tutto, lasciando di fatto la patata bollente in mano ai tutori dell’ordine e ai loro responsabili (Prefetto e Questore).

Quando i manifestanti di piazza Duomo si mossero per andare in via Larga, erano seguiti da un reparto della Celere (gli attuali “reparti mobili”). E proprio in via Larga si realizzò un ingorgo incredibile di manifestanti e forze di Polizia, per cui i responsabili dell’ordine pubblico decisero di disimpegnare gli uomini restati di fatto nel mezzo, tra la folla che usciva dal Teatro Lirico e quella che proveniva da Piazza Duomo. Nello spostamento degli automezzi, che procedevano a passo d’uomo, restò urtato un manifestante, che peraltro non si fece nulla, e si rialzò subito in piedi. Le camionette della Celere, come dicevamo, andavano a passo d’uomo. Ma fu il segnale che molti aspettavano, il pretesto per scatenarsi. In pochi istanti gran parte della folla assalì i poliziotti e i carabinieri, parte a piedi e parte sugli automezzi. Gli uomini della legge furono investiti da una pioggia di cubetti di porfido, divelti dal selciato e di tubi da impalcature, rubati da un cantiere che si trovava in zona. E già questo dimostrava una chiara premeditazione, perché non è assolutamente normale andare a una manifestazione di piazza portandosi dietro l’attrezzo necessario (un palanchino, pesante e impegnativo) per svellere parti di selciato, e la velocità con cui alcuni si diressero al cantiere per sottrarre i tubi da impalcatura e usarli come arma, non poteva che dimostrare un piano predisposto.

I funzionari preposti ordinarono allora un carosello con gli autoveicoli, per disperdere la folla tumultuante. E contro un gippone della Polizia venne scagliato, molto da vicino, un tubo da impalcatura usato a mo’ di lancia. Sul gippone erano presenti tre poliziotti. Al volante era Antonio Annarumma, che ebbe il cranio sfondato nella regione parietale destra, con perdita di sangue e sostanza cerebrale. Si accasciò sul volate e il gippone, ormai senza controllo, andò a urtare un altro automezzo della Polizia, e poi entrambi si bloccarono contro un cordolo di marciapiede. La corsa immediata al Pronto Soccorso del Policlinico fu purtroppo inutile. Annarumma venne operato, ma era già un miracolo che fosse giunto all’ospedale vivo. Dopo un’ora di sala operatoria, ne venne dichiarata la morte. La versione del professor Staudacher, del Pronto Soccorso, coincideva perfettamente con quella dei medici legali, i professori Luvoni e Pozzato, incaricati della perizia: il giovane poliziotto era morto per lo sfondamento del cranio, causato da un tubo o altro oggetto similare usato come una lancia.

Gli scontri continuarono ancora per circa mezz’ora in via Larga, finché le forze dell’ordine riuscirono a riprendere il controllo della situazione, arrestando sette manifestanti. La gran parte dei picchiatori si era peraltro rifugiata in Università Statale. L’ingresso era stato barricato e la Polizia aveva l’ordine di non agire direttamente contro questa specie di “santuario” della violenza. Per le strade, il consueto panorama a cui purtroppo Milano era ormai abituata: auto danneggiate, vetrine sfondate, segni di devastazione. Furono raccolti quattrocento tubi da impalcatura e un numero imprecisabile di cubetti di porfido.

Contro i sette manifestanti arrestati la Procura delle Repubblica non aveva ancora formulato accuse, in attesa del rapporto di Polizia. Ma già nel pomeriggio di quella tragica giornata il PCI aveva costituito un collegio di difesa, composto da avvocati di prim’ordine, diversi dei quali parlamentari, e chiedeva “l’immediata scarcerazione dei giovani arrestati”. Stessa imperiosa richiesta veniva formulata dai sindacati CGIL-CISL-UIL. Sull’assassinio di Antonio Annarumma si preferiva glissare. Un comunicato dei sindacati, vero materiale da neurodeliri, non faceva neanche il nome di Annarumma, ma si limitava a dire che “la morte di un uomo” è sempre un fatto da deprecare, ma che la responsabilità ricadeva sul Questore e sul Prefetto, perché non avevano obbedito al diktat dei sindacati, che esigevano che alle loro manifestazioni non vi fosse presenza di forze di Polizia, essendo sufficienti, a garantire l’ordine, i loro “servizi d’ordine”.

Già questa posizione era folle, laddove si consideri che una associazione privata (il sindacato) pretendeva di imporre comportamenti specifici a un organo dello Stato (la Polizia). Ma chi stravinse in spudoratezza fu L’Unità, organo del Partito Comunista Italiano, che nella sua cronaca sosteneva, molto en passant, che un poliziotto era morto per aver battuto il cranio in uno scontro tra automezzi della Polizia. Fu l’unico organo di stampa a diffondere questa versione, ma l’Unità era allora, per i comunisti, la Bibbia. Peraltro abbiamo visto che il Partito Comunista aveva subito lanciato un proclama per la “scarcerazione immediata” degli arrestati. Non importava quindi che tra loro vi fosse o meno l’assassino di Annarumma. Infatti solo il giorno successivo il Pubblico Ministero avrebbe formulato i capi di accusa, e nessuno dei manifestanti era indagato per questo reato, bensì per violenza, resistenza, manifestazione non autorizzata.

Ovviamente poi l’Unità si dilungava sulla selvaggia violenza della Polizia, un argomento questo così ricorrente da divenire quasi umoristico, e nella stessa pagina in cui dava notizia, peraltro con la versione che dicevamo sopra, della morte di Annarumma, pubblicava la cronaca dell’intervento alla Camera di un deputato comunista, che sosteneva che nelle scuole della Polizia si insegnava a sparare sui manifestanti. Un vecchio sistema di disinformazione: creare un’altra notizia (che fosse o meno vera, questo non ha importanza) per distogliere l’attenzione da quella principale.

Ma che il PCI fosse così spudorato nel sostenere menzogne, non stupisce più di tanto, essendo questo comportamento nella natura stessa di quella patologia che si chiama marxismo. I sindacalisti della Trimurti erano burattini agli ordini del PCI, e quindi anch’essi si perdono nella loro inconsistenza.

Piuttosto ci interessa riflettere su un altro aspetto. Fino a quel momento il “sessantotto”, scuola di violenza e prevaricazione, non aveva ancora causato morti. Ammazzare una persona è sempre una faccenda terribile e non a caso è uno dei “test” necessari per essere ammessi nelle grandi famiglie mafiose.

Il sessantotto fu per lo più il gioco della rivoluzione, fatto dai rampolli annoiati di una borghesia benestante e viziata. Ora, ci siamo spesso domandati a quale abisso di appannamento della coscienza potesse essere arrivato uno di quei giovani che aveva infilato nel cranio di un uomo, colpevole solo di portare una divisa, una lancia, sapendo benissimo che così facendo uccideva. E, come testimoniano le numerose foto scattate in loco, quando l’automezzo guidato da Annarumma venne attaccato, vi erano intorno ad essi numerosi manifestanti. Quindi, in tanti sapevano chi aveva inferto il colpo mortale.

Ebbene, né quel giovane sentì il dovere di costituirsi, né altri sentirono il dovere di denunciare, testimoniare. La scuola di violenza e di odio, principale caratteristica del sessantotto, aveva dato i suoi frutti velenosi. Si era riusciti anche a passare una delle soglie di norma invalicabili, quella che causa la morte di un uomo. E non a caso il Partito Comunista, principale ispiratore (nonché finanziatore) della scuola della violenza e dell’odio si gettò subito a difendere gli arrestati, e diffuse una versione dei fatti inverosimile.

Quando pubblicai l’anno scorso un volumetto di ricordi sul sessantotto, (Sessantotto, diario politicamente scorretto. Fede &Cultura, Verona 2008) fermai la narrazione proprio all’assassinio di Antonio Annarumma, perché sostenevo, e sostengo, che con quel crimine il “sessantotto” ormai aveva completato la sua parabole, era riuscito ad ammazzare le coscienze, a preparare quindi una truppa sicura per ogni altra ulteriore necessità di violenza. Tutto quanto accadde dopo, è cronaca, che prosegue su quel filo logico che ormai si era ben definito: odio, violenza, prevaricazione, fino a portare dei giovani all’omicidio.

Se oggi fate un giro istruttivo sui siti della “Buona Stampa” (per intenderci, Repubblica & c.) provate a cercare il nome di Antonio Annarumma: non c’è, cancellato, annullato, mai esistito. La cattiva coscienza ha come rifugio la negazione della realtà, e il sessantotto deve passare nella vulgata come un periodo di rose e fiori, in cui i giovani, sotto la guida illuminata della sinistra, seppero portare il Paese al progresso e alla felicità. Forse non era di questo parere il padre di Antonio Annarumma, contadino sessantenne, di quei sessant’anni che fanno di un uomo ormai un vecchio, perché segnati da una vita di vere fatiche. Il pover’uomo, annichilito dalla disperazione, ebbe la forza di seguire il funerale del figlio. E a quel funerale ebbe il pessimo gusto di intervenire anche Mario Capanna, di professione rivoluzionario full time, con tanto di fazzoletto rosso al collo. Rischiò il linciaggio, e fu salvato da un giovane commissario di Polizia, Luigi Calabresi, che di lì a pochi anni sarebbe caduto sotto il piombo dei soliti fanatici dell’odio e della morte.

Antonio Annarumma, di anni ventidue, autista del terzo raggruppamento Celere, fu ammazzato come un cane il 19 novembre del 1969. Non c’era alcun motivo, se non la cecità e la follia dell’odio, che ormai aveva minato la mente di chi lo colpì.

E per completezza di cronaca, ricordiamo che l’assassinio di Annarumma fu l’ultima goccia che rischiò di far traboccare il vaso della sopportazione delle forze di Polizia. Sottoposti da troppo tempo a turni massacranti, a dover sopportare ingiurie e botte da giovani viziati, i poliziotti delle due caserme principali di Milano (la Sant’Ambrogio e la Bicocca), esasperati dall’assassinio del commilitone, nella notte del 19 novembre si organizzarono per uscire armati e andare a chiudere la partita all’Università Statale. Solo il buon senso di alcun ufficiali e sottufficiali riuscì a bloccare la rivolta, che si sarebbe di sicuro conclusa in tragedia. E allora il governo degli imbelli scoprì che i poliziotti erano sotto pagati, non avevano diritto a straordinari, erano sottoposti a turni pazzeschi, umiliati e sbeffeggiati. A Milano si precipitarono il capo del Governo, Rumor, col ministro dell’Interno, Restivo, col capo della Polizia e col comandante generale del Corpo della Guardie di Pubblica Sicurezza. La rivolta rientrò, ma era stato necessario l’assassinio di un uomo perché il Governo si accorgesse di quanto era sotto gli occhi di tutti.


Paolo Deotto, storico e saggista, da anni si occupa di studi storici, principalmente indirizzati sul Novecento. Nel 1996 è stato tra i fondatori del primo periodico di Storia diffuso in Rete, Storia in Network. Ha lavorato sia su siti tematici (Storia Libera, ISIIN) sia su Riviste (Storia Verità, Nova Historica, Radici Cristiane). Nel 2008 ha pubblicato con l’editrice veronese Fede e Cultura il libro “Sessantotto, diario politicamente scorretto”. Nello stesso anno ha ricevuto dall’AESPI il Premio alla Cultura “Attilio Mordini”


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