IL BEATO LUIGI STEPINAC DALLE PAGINE DEL SUO EPISTOLARIO


Lettere dal martirio quotidiano

di Paolo Maggiolo

Nel cinquantesimo anniversario della morte del beato Alojzije (Luigi) Stepinac, che si celebrerà il 10 febbraio 2010, l’Associazione Editoriale Promozione Cattolica ha voluto pubblicare in traduzione italiana le lettere scritte dal martire croato dalla casa parrocchiale di Krasic, vicino a Zagabria, dove si trovava confinato per autorità del governo jugoslavo di Tito. Il volume, curato da Alberto Di Chio e Luciana Mirri e dotato di una prefazione da parte dell’attuale arcivescovo di Zagabria Josip Bozanic, s’intitola Lettere dal martirio quotidiano ed è uscito da appena un mese per le edizioni Proget di Padova. Un’estesa e interessante Introduzione, ad opera di Juraj Batelja che fu il postulatore della causa di beatificazione, rende conto delle principali vicende biografiche del cardinale Stepinac e illumina su alcuni tratti della sua personalità.

Nato nel 1898 da una famiglia saldamente ancorata ai princìpi cristiani, Luigi Stepinac fu ordinato sacerdote a Roma nel 1930, dopo un periodo di studi condotti presso il Collegio Germanico-Hungarico e presso la Pontificia Università Gregoriana. Tornato in patria nel 1931, egli contribuì ad istituire la Caritas nella diocesi di Zagabria. Nel 1937 diventò arcivescovo di Zagabria e presidente della Conferenza Episcopale della Jugoslavia. Come cittadino dello Stato Indipendente Croato, instaurato nel 1941, l’arcivescovo Stepinac si trovò più d’una volta in contrasto con i capi di quel regime provvisorio, e questo per la sua volontà di farsi protettore di chiunque, senza distinzioni di nazionalità o di ideologie.

Ma i suoi più feroci avversari, alcuni anni dopo, si rivelarono i partigiani di Tito i quali, preso il potere nel 1945, iniziarono un’agguerrita campagna contro il Verbo cristiano. Il beato Stepinac, particolarmente amato e ascoltato dalla sua gente, fu arrestato e tenuto in prigione dal 17 maggio al 3 giugno ’45. In seguito il presule rifiutò con estrema fermezza di assecondare le manovre di Tito intese a creare in Jugoslavia una Chiesa nazionale separata da Roma. Questo tentativo di corruzione delle gerarchie ecclesiastiche nei territori jugoslavi portò, ricordiamolo, alla drammatica persecuzione e alla eliminazione fisica di un gran numero di vescovi, di sacerdoti e di laici. Il 22 settembre 1945 la Conferenza episcopale presieduta da Stepinac pubblicò una Lettera in cui si condannavano le gravi ingiustizie subìte in quel Paese dalla Chiesa cattolica. Il 4 novembre successivo l’arcivescovo subì un attentato e un anno più tardi, accusato di aver collaborato con il governo dello Stato Indipendente Croato, venne processato e condannato alla prigionia nella casa di pena di Lepoglava, nella regione di Varazdin. A Lepoglava, pur essendogli concesso di celebrare la Santa Messa, egli fu tenuto in assoluto isolamento e si nutre il forte sospetto che sia stato anche avvelenato dai suoi carcerieri.

Gravemente malato, fu trasferito a Krasic nel dicembre del 1951, sempre sottoposto a misure restrittive della libertà personale (compreso il divieto di esercitare il ministero espiscopale) e confinato – come s’è detto in principio – nella casa parrocchiale della cittadina croata. Lo stesso reverendo Josip Vranekovic, che lo ospitò nella canonica di Krasic, divenne oggetto di continue intimidazioni da parte della polizia e di vessazioni da parte dell’autorità giudiziaria.

Nel 1953 monsignor Stepinac fu creato cardinale da papa Pio XII con una decisione che fornì il pretesto al governo jugoslavo di interrompere le relazioni diplomatiche con la Santa Sede. Il cardinale Stepinac visse una decina d’anni a Krasic in continuo stato di infermità, privo di cure mediche efficaci, costretto a sopportare patimenti fisici e morali fino alla morte, sopraggiunta il 10 febbraio 1960. Nel 1998 fu beatificato da papa Giovanni Paolo II.

Negli anni del suo confino a Krasic il prigioniero, considerato un “criminale di guerra”, disponeva dei soli canali epistolari per mantenere i contatti con l’esterno e per fare sentire la propria voce di vescovo e di cristiano. I suoi corrispondenti erano soprattutto religiosi e religiose della Jugoslavia, ma anche uomini di cultura ed esponenti della vita civile come lo scrittore Petar Grcec, gli avvocati Ivo Andres e Ante Civkovic, lo scultore Ivan Meštrovic, la regista e scrittrice Marija Makuc, i medici Ferdo Fuks e Ivan Stepinac. I messaggi del cardinale miravano ad infondere coraggio e fiducia a tutti i rappresentanti della Chiesa e ai fedeli che gli si rivolgevano per avere consigli ed essere confortati dalla sua guida negli anni oscuri dell’ateismo militante imposto al popolo jugoslavo dalla politica di Tito.

Le lettere, oltre ad essere un esempio di morale cristiana, sono quanto mai chiare ed eloquenti in merito alle persecuzioni subite dalla Chiesa nella Repubblica socialista confinante con l’Italia. Esse sono anche un implacabile atto di accusa contro il sistema comunista di cui è svelato lo spirito ingannevole ed oscuro, come sempre nemico della verità e della giustizia, nemico della stessa civiltà (v. lettera a mons. Juraj Magjerec, rettore del Pontificio Collegio Croato a Roma, 28 novembre 1955).

Uno dei mezzi di cui si servì subdolamente la propaganda comunista nella repubblica jugoslava fu l’Associazione clericale intitolata ai santi Cirillo e Metodio (CMD), istituita senza l’approvazione della legittima autorità ecclesiastica, per frapporre un distacco tra i vescovi e i sacedoti (il cosiddetto “clero popolare”) e creare sfiducia e smarrimento negli uni e negli altri. Parlando dei membri di questa Associazione il beato Stepinac, in una lettera fatta pervenire nell’aprile del 1954 ad un gruppo di sacerdoti di Zagabria, avvertì che essi «vogliono convincere la gente che sono rimasti sacerdoti cattolici, mentre nello stesso tempo innalzano il vessillo contro la Chiesa santa […]. Quando rifletto perché quello o quell’altro si è associato a quella tristissima Associazione, in ultima analisi trovo la stessa identica motivazione: perché non gli andava di portare la croce del Signore. Vuole più libertà, più indipendenza, come se non avesse promesso mai davanti all’altare di Dio: ‘Promitto reverentiam et oboedentiam’».

In una lettera di poco posteriore (del luglio 1954) egli volle paragonare gli aderenti all’Associazione “Cirillo e Metodio” a quei tanti sacerdoti francesi che si prostrarono davanti ai rivoluzionari del 1789, e poi, «con la stessa logica», si inginocchiarono anche davanti a Napoleone Bonaparte, «sebbene questi tenesse in schiavitù il Capo supremo della Chiesa». E senza ricorrere a mezzi termini, nel messaggio del 23 luglio ’54 indirizzato a mons. Josip Pavlisic vescovo ausiliare della diocesi di Fiume, lo Stepinac giunse a condannare la CMD come “vera escrescenza dell’inferno” e a ribadire la necessità di usare “la spada della scomunica tagliando questo marciume dall’albero sano della Chiesa”.

Molte altre sarebbero, da questo carteggio, le citazioni degne di essere riportate per comprendere come la vita religiosa dovesse combattere, nei domìni della stella rossa, una dura lotta quotidiana, non solo per resistere ai persecutori, ma anche per non cedere all’odio nei loro confronti. Ma un ultimo brano vale qui certamente la pena di segnalarlo perché conferma come una parte ben precisa dell’opinione pubblica occidentale valutasse con eccessiva indulgenza (e talvolta, sappiamo, in malafede) la drammatica situazione di miseria morale e materiale venutasi a creare negli stati d’oltrecortina. Scrivendo a Roma a mons. Juraj Magjerevic, il 28 novembre 1955, il beato Stepinac si rammaricava infatti che «troppi uomini ingenui dell’Occidente non hanno un’idea nemmeno oggi della situazione reale. Uomini occidentali vengono qui sotto la tutela delle loro ambasciate, oppure invitati dagli uomini al potere, e sono guidati nei paesi di Potemkinov: chi li guida ha il compito di nascondere l’infinita miseria e tribolazione che vi si nasconde e di cui nemmeno loro sono pienamente coscienti». Cosa sono i “paesi di Potemkinov” nominati da Stepinac nella sua lettera? Erano villaggi “posticci” fatti costruire nel Settecento dal politico Grigorij Aleksandrovic Potëmkin per ingannare la zarina Caterina II sulle precarie condizioni dei suoi sudditi nelle immense campagne della Russia. I “villaggi Potëmkin”, sorta di prefabbricati destinati a scomparire dopo il passaggio della sovrana, da allora diventarono efficace sinonimo di menzogna e di realtà illusoria.

Paolo Maggiolo, nato a Padova nel 1957, esercita da alcuni anni la professione di bibliotecario. I suoi interessi, principalmente rivolti alla storia culturale della sua città, lo portano a collaborare a riviste, volumi e iniziative di carattere locale. Si è occupato anche dell'opera e della biografia di un poeta e viaggiatore irlandese dell'Ottocento, James Henry (1798-1876) di Dublino, sul quale ha pubblicato una serie di contributi in periodici italiani. Quest'anno ha pubblicato, con le Edizioni Solfanelli, "Adversaria - frammenti d'autore", una raccolta di citazioni di 258 autori del presente e del passato. E' un piccolo e utile dizionario contro i luoghi comuni della Sinistra, contro la sua inguaribile presunzione di superiorità


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